Pubblicato originariamente su Strade
L’ottima analisi di Thomas Manfredi – parlava anche di trattore e zappa, un invito a nozze per uno come me che di mestiere produce macchine agricole – evidenzia quello che per chi si occupa di queste cose è il problema dei problemi: la produttività. Vorrei portare alcune riflessioni non da economista ma da imprenditore.
I grandi salti di produttività si fanno a scalini, attraverso le tecniche di cambio dei processi che presuppongono cambi organizzativi, di strumenti e di tecnologie. Tutto questo deve essere governato da responsabili “illuminati”, con potere sufficiente e grande forza di volontà, perché i cambiamenti a scalini non sono solo difficili da immaginare ma anche e soprattutto da mettere in pratica.
Aumentare la produttività significa fare di più con meno risorse. In un periodo in cui il lavoro aumenta vuole dire stabilizzare le risorse presenti, ma in un periodo di crisi significa che ci saranno risorse eccedenti. Finché le risorse eccedenti sono macchinari, ci sarà qualche problema di ammortamenti o vendita dell’usato, ma tutto sommato risolvibile. Se le risorse in eccesso sono le persone: o aumento le cose da fare o devo ridurre il personale.
Mettetevi quindi nei panni delle persone che lavorano in una organizzazione e immaginatevi che una azienda, con 100 dipendenti si proponga di migliorare la produttività del 10%. O fa il 10% di lavoro in più o ha bisogno di 90 persone. Già a quasi nessuno, nelle organizzazioni, piace il cambiamento, figuriamoci se il cambiamento può portare a riduzioni di personale.
Pensate solo a quanti bancari sono fuoriusciti dalle banche negli ultimi anni: internet banking, bancomat, centralizzazione di molti servizi, specializzazione di altri, tutte cose che hanno influito. Io ricordo di 4/5 casse aperte e nel backoffice almeno altre 7/8 persone, mentre oggi c’è una cassa aperta (due negli orari di punta), un paio di specialisti e il caposala (e neppure sempre).
Ecco allora che la produttività, per chi lavora, può diventare il nemico che si insinua e toglie il lavoro.
Avete mai conosciuto qualcuno disposto ad ammettere che il suo lavoro è inutile e “tagliabile”? E’ naturale, a nessuno piace sentirsi un lavoratore inutile, uno che fa cose marginali. Ecco che allora se non c’è un fortissimo impegno, una condivisione, ogni tanto le necessarie forzature di chi ha responsabilità della organizzazione, i progetti di produttività si arenano.
In una Italia che è oltretutto maniaca del timbro, della legge, del “quello non è compito mio”, di uno spirito in genere poco collaborativo e soprattutto profondamente permeata di una cultura “anti mercato”, sindacalizzata, anti industriale, cambiare diventa fatica doppia.
Nella Pubblica Amministrazione poi, è ancora peggio: mobilità impossibile, formazione scarsissima, età media elevata, “io ho vinto un concorso”, demotivazione, conflittualità sindacale, ingerenze della politica, burocrazia che si auto legittima e occupa sempre più spazio.
Non a caso mentre nelle aziende la rivoluzione informatica ha portato a milioni di posti eliminati (a parità di output) nella PA nulla è cambiato, la carta la fa ancora da sovrana e informatizzare vuole spesso dire rifare gli stessi processi previsti per le carte con il computer. Magari con stampe e firme nei vari passaggi.
Insomma, la produttività è la madre di tutti i problemi, ma sul campo non è facile migliorarla e implementarla per le fortissime resistenze delle organizzazioni.