Pubblicato originariamente su Strade
Ho letto con interesse l’articolo di Andrea Arrigo Panato sulla crisi di credibilità del Made in Italy. E’ qualcosa con cui il mio team si confronta quotidianamente, dal momento che operiamo a livello globale e la politica di marchio è fondamentale.
“Made in Italy” è una bella storiella che ci raccontiamo tra di noi, ma è ormai solo uno dei tanti componenti dell’immagine di un’azienda. L’immagine dell’Italia è fatta dai grandi marchi di alimentare, moda, meccanica ma anche da politici impresentabili, mafia, malaffare. E molti colleghi ci hanno messo parecchio del loro dimostrandosi inaffidabili.
In più, l’attuale produzione liquida, grazie a facilità di logistica e comunicazione, ha reso quasi inafferrabile il “made in”: nella meccanica sapete quanti prodotti tedeschi sono alla fine “quasi Made in Italy”? E quanti fatti in USA, Brasile, paesi dell’Est? Sapete esattamente dove è stata prodotta la vostra auto? E i suoi componenti?
Non a caso le grandi aziende sono state tra i maggiori oppositori della marcatura di provenienza. E va comunque detto che un regolamento messo in mano ai burocrati comunitari potrebbe causare enorme lavoro aggiuntivo.
Noi che produciamo meccanica e motori (e abbiamo il rosso come colore aziendale) non possiamo non beneficiare dell’alone di Ferrari e Ducati, ma non è sufficiente. Quello che vedo negli ultimi tempi è una fama “al contrario” dei cinesi che nella meccanica con prodotti a prezzo bassissimo e qualità ancora più bassa si sono fatti una cattiva nomea. Il nostro enfatizzare il Made in Italy oggi punta più su questo che sulla reale qualità. “Non fatto in Cina”: una definizione in negativo, per contrasto con qualcosa di più facilmente definibile.
Ho sempre riso dell’idea dei molti che cercavano di ricavarsi uno spazio (probabilmente per loro) a gestire improbabili marchi di “made in Pavia” o “made in Lombardy”. Il mio cliente finale, contadino peruviano, ha probabilmente una vaga idea di dove sia l’Italia, immaginatevi quanto possa essere impressionato da un “Made in Pavia”. La politica di marchio può avere un beneficio inizialmente dal “fatto in” ma solo con un prodotto equilibrato e che soddisfa le aspettative di chi lo compera si può avere un successo a lungo termine. Non basta scrivere “Made in Italy” per vendere: magari nel cibo può portare qualche vendita in più all’inizio, per prova. Ma se il prodotto non è buono tutto finisce lì.
Le strategie lusso, premium, low cost (il resto sta sparendo) devono essere implementate in modo coerente. Nella moda di lusso c’è chi compera il marchio, ed poco interessato alle materie prime, e chi compera la materia prima e la fattura. Ci avete fatto caso? Nel primo caso il marchio è preponderante nel design nel secondo raramente è visibile.
Cosa conta in un prodotto? Dipende, se è artigianale certamente la maestria di chi lo ha fatto, ma se è industriale, di grande diffusione e di design importa a qualcuno dove è fatto? Una giacca su misura di un sarto di Savile Row (ma anche lì stanno sparendo) vs il solito Iphone. E conta più dove è fatto il concept del prodotto o dove è fisicamente prodotto? L’inventiva sta nella progettazione o nella produzione?
Nella moda, poi, ormai molti marchi italiani sono francesi, i francesi producono in Italia e quasi tutti in mille posti, dalla Tunisia all’Est alla Cina. Volete sapere quale è il posto più a buon mercato per produrre? Entrate in un negozio, cercate l’ultima collezione uscita di Nike, sollevate la linguetta e guardate dove è prodotta.
Mi si permetta, per finire, una nota polemica: quanti di coloro che si scagliano contro delocalizzazioni, sfruttamento delle persone e del territorio sono poi consumatori consapevoli e cercano di comperare prodotti fatti in Italia? Quanti invece guardano solo prezzo e/o marchio?